Dal 1° marzo al 22 maggio 2022, alla Galleria Borghese la mostra Guido Reni a Roma. Il Sacro e la Natura a cura di Francesca Cappelletti

Con Guido Reni a Roma. Il Sacro e la Natura, a cura di Francesca Cappelletti, la Galleria Borghese inaugura, a più di trent’anni dall’ultima grande esposizione italiana, la prima di una serie di mostre internazionali dedicate al Maestro del Seicento italiano.

La mostra ruota attorno al ritrovato dipinto di Reni Danza campestre (1605 circa), che da un anno è tornato a fare parte della collezione del museo. La sua acquisizione è un tassello fondamentale per ricostruire i primi anni del soggiorno romano dell’artista.

Guido Reni a Roma

Guido Reni Danza campestre 1605-1606 – olio su tela, 81 x 99 cm Roma, Galleria Borghese. © Galleria Borghese

Appartenente alla collezione del cardinale Scipione Borghese, citato negli antichi inventari sin dall’inizio del Seicento, venduto nell’Ottocento, prima disperso, e poi ricomparso nel 2008 sul mercato antiquario londinese come anonimo bolognese, il quadro, dopo le opportune verifiche attributive, è stato riacquistato dalla Galleria nel 2020.

Oltre a rappresentare un’importante integrazione storica del patrimonio del museo, la sua presenza nelle sale della pinacoteca accanto agli altri dipinti della collezione sottolinea la fondamentale importanza della committenza Borghese per Guido Reni e offre l’opportunità di riflettere sul rapporto del pittore con il soggetto campestre e la pittura di paesaggio, finora ritenuti “estranei” alla sua produzione.

“Guido Reni a Roma. Il Sacro e la Natura” attraverso l’esposizione di oltre 30 opere, prova a ricostruire – partendo dall’interesse di Reni per la pittura di paesaggio in rapporto ad altri pittori operanti a Roma nel primo Seicento – i primi anni del soggiorno romano dell’artista, il suo studio appassionato dell’antico e del Rinascimento, lo stordimento rispetto alla pittura di Caravaggio da lui conosciuto e frequentato, e i rapporti con i suoi committenti.

La mostra, nata intorno al nostro nuovo dipinto, il numero 609 della raccolta, ricostruisce il primo soggiorno di Guido a Roma: non possiamo definirlo un percorso di formazione giovanile perché il grande artista arriva a 26 anni, per curiosità e alla ricerca di nuove occasioni, ma sull’onda di una carriera brillante in patria. Era un pittore che già sapeva troppo, come pare avesse a dire di lui Annibale Carracci, e che a Roma resta un isolato di grande successo.

Cosa gli ha dato questa città e cosa vi ha lasciato è la storia che vogliamo raccontare e di cui la mostra è solo il punto di partenza. Al catalogo si affiancherà un itinerario sui luoghi romani di Guido, perché il visitatore possa scoprire chiese e musei che conservano altre opere del nostro pittore e collegare la Galleria alla città, osservare gli affreschi, andare oltre gli anni del soggiorno romano, capire la fortuna critica dell’artista e le radici della leggendaria perfezione, che gli viene attribuita“, commenta Francesca Cappelletti.

Guido Reni a Roma

LA MOSTRA

Il percorso di mostra si apre al piano terra nel grande salone d’ingresso con 4 monumentali pale d’altare – la Crocifissione di San Pietro (1604-5), la Trinità con la Madonna di Loreto e il committente cardinale Antonio Maria Gallo (1603-4 e.a), il Martirio di Santa Caterina d’Alessandria (1606 e.a) e il Martirio di Santa Cecilia (1601) – che evidenziano la capacità dell’artista, maturata già negli anni precedenti all’arrivo a Roma, di confrontarsi con questa tipologia, di toccare gli animi attraverso la solennità e la potenza delle sue figure perfette, e ci rivelano molto anche del rapporto di Reni con i suoi committenti: Paolo Emilio Sfondrato, Antonio Maria Gallo, Ottavio Costa e Pietro Aldobrandini.

Nelle sale contigue opere come la Strage degli Innocenti (1611) e San Paolo rimprovera San Pietro penitente (1609 c.) confermano come alla base della pittura romana di Guido Reni, ma anche di quella che si spinge un poco più in là negli anni come con Lot e le figlie e Atalanta e Ippomene (1615-20), ci sia una forte attrazione per il mestiere degli scultori, dimostrata dalla posizione dei corpi nello spazio, dalla concretezza tridimensionale dei gesti, dalle espressioni dei volti che, magistralmente, fissano per sempre una specifica emozione.

Guido Reni a Roma

Guido Reni – Atalanta e Ippomene. 1615-1618 circa – olio su tela, 192 x 264 cm. Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte © su concessione del Ministero della Cultura – Museo e Real Bosco di Capodimonte, Napoli Mostra “Guido Reni a Roma. Il Sacro e la Natura”

Al primo piano, nella seconda parte della mostra, prestiti generosi e le eccezionali raccolte della Galleria consentono percorsi e divagazioni intorno al tema del paesaggio e all’ultimo acquisto della collezione, la Danza Campestre: nella Sala del Lanfranco, per sottolineare la pratica della pittura di paesaggio a Roma nel primo decennio del Seicento, sono esposte alcune delle necessarie premesse emiliane, dal Paesaggio con la caccia al cervo di Niccolò dell’Abate alla Festa campestre (1584) di Agostino Carracci, alcuni quadri di Paul Bril parte della collezione della Galleria, e Paesaggio con Arianna abbandonata e Paesaggio con Salmace ed Ermafrodito (1606-8 e.a), due dei sei paesaggi con storie mitologiche di Carlo Saraceni, già parte della collezione Farnese, provenienti dal Museo e Real Bosco di Capodimonte.

E ancora alcune tarde e letterarie sperimentazioni dei pittori bolognesi, dai quattro tondi di Francesco Albani – paesaggi eseguiti nel 1621 per Scipione Borghese e abitati da dee e ninfe – al Paesaggio con Silvia e il satiro (1615) del Domenichino proveniente dalla Pinacoteca di Bologna, testimonianza di un interesse che continua nei decenni successivi a quei primi intensi momenti del secolo. Il percorso fra Guido Reni e i suoi contemporanei, fra paesaggio e figura, termina a Roma con l’affresco eseguito fra il 1613 e il 1614 nel casino del cardinale Scipione Borghese, oggi Pallavicini Rospigliosi.

Tra gli affreschi di Paul Brill e di Antonio Tempesta, Reni immagina il sorgere del Sole, circondato dalle Ore e preceduto da Aurora, lasciando intravedere sullo sfondo un paesaggio marino che ci riporta indietro alla Danza campestre, oggi tornata nella dimora che fu di Scipione Borghese e con cui si conclude la mostra. L’affresco, uno dei massimi capolavori dell’artista, idealmente rappresenta la fine del fruttuoso ma tormentato rapporto del pittore con la famiglia Borghese, e del suo primo, fondamentale soggiorno romano.

IL PRIMO SOGGIORNO ROMANO DI GUIDO RENI

A Roma, città di confronto e di sfide per gli artisti, il giovane Guido Reni arriva all’inizio del Seicento probabilmente invitato dal cardinale Paolo Emilio Sfondrato, conosciuto a Bologna nel 1598. Quest’ultimo, nipote di papa Gregorio XIV, visita il capoluogo emiliano al seguito di Clemente VIII, entrando in contatto con Reni, a cui chiede una copia dell’Estasi di Santa Cecilia di Raffaello. Questa versione, giunta in città, anticipa l’arrivo del suo autore che vi rimane, con frequenti interruzioni, fino al 1614.

Un soggiorno contrassegnato all’inizio da una serie di lavori con soggetti religiosi, alcuni eseguiti per conto del cardinale Sfondrato che, nel 1608, vende a Scipione Borghese parte della sua collezione. Al 1604 risale la Crocifissione di San Pietro, che segna un momento di confronto serrato con Caravaggio e di ardente sperimentazione giovanile.

La tela – commissionata dal cardinale Pietro Aldobrandini per l’abbazia di San Paolo alle Tre Fontane – insieme ad altre opere come Davide con la testa di Golia (1605) rivela l’attenzione di Reni non solo per Caravaggio ma anche per i modi di altri artisti contemporanei, che rielaborati porteranno alla sua maniera singolare e ammirata di dipingere, in cui il chiaroscuro drammatico caravaggesco si innesta sulla lezione di Ludovico Carracci.

Altro momento cruciale del soggiorno romano, messo in luce dalla mostra, è il rapporto intessuto con il banchiere genovese Ottavio Costa, collezionista e committente che gioca a Roma un ruolo fondamentale, anche per l’uso spregiudicato delle copie che faceva realizzare dai suoi quadri, come il San Francesco in estasi e il San Giovanni Battista di Caravaggio. I nomi di Reni e Caravaggio si trovano appaiati, insieme a quello di Annibale Carracci, nelle carte di Costa, e tornano ad esserlo nelle considerazioni di altri personaggi di rilievo per la storia culturale di questo straordinario periodo, come il marchese Vincenzo Giustiniani.

La mostra è accompagnata da un catalogo edito da Marsilio con testi, tra gli altri, di Daniele Benati, Raffaella Morselli e Maria Cristina Terzaghi; una rilettura innovativa del lavoro del Maestro attraverso uno studio scientifico su Guido Reni come paesaggista. Con la volontà di consentire il maggior accesso possibile alla mostra e di sostenere i consumi culturali, la direzione della Galleria Borghese ha scelto di non applicare maggiorazioni sul costo del biglietto, che rimarrà pertanto invariato e permetterà l’accesso alla mostra e alla collezione permanente.

Guido Reni a Roma

Guido Reni – Biografia

Guido Reni nasce a Bologna nel 1575, da Daniele Reni musicista e maestro della Cappella di San Petronio, e Ginevra Pozzi. Nel 1584 abbandonati gli studi di musica entra come apprendista nella bottega del pittore fiammingo Denijs Calvaert, dove incontra altri artisti destinati a grande successo, i giovani Francesco Albani e Domenichino. Nel 1594 lascia questa bottega per accedere all’Accademia degli Incamminati, la scuola di pittura fondata dai Carracci nel 1582, dove approfondisce lo studio della pittura a olio e dell’incisione a bulino.

Nel 1601 è indicato il suo primo soggiorno a Roma, chiamato dal cardinale Sfondrato per realizzare a Santa Cecilia in Trastevere il Martirio di santa Cecilia, l’Incoronazione dei santi Cecilia e Valeriano e la copia del dipinto dell’Estasi di Santa Cecilia con quattro santi di Raffaello, oggi a San Luigi dei Francesi. Nel 1602 torna a Bologna per i funerali di Agostino Carracci, per i quali incide a stampa le decorazioni. Al 1605 risale un’altra importantissima opera romana, La crocefissione di san Pietro, realizzata su incarico del cardinale Pietro Aldobrandini per la chiesa di San Paolo alle Tre Fontane e oggi alla Pinacoteca Vaticana: secondo il Malvasia, sarebbe frutto di un suggerimento del Cavalier d’Arpino per danneggiare il Caravaggio, autore dello stesso soggetto in Santa Maria del Popolo.

La fama di Guido Reni è ormai consolidata al punto che nel 1608 ritorna a Roma e papa Paolo V Borghese gli affida la decorazione della Sala delle Nozze Aldobrandini e la Sala delle Dame nei Palazzi Vaticani, mentre il cardinale Borgherini gli commissiona gli affreschi di San Gregorio al Celio, il Martirio di sant’Andrea e l’Eterno in gloria.

Tra il 1609 e il 1610 si colloca un altro importante incarico papale a Roma, la decorazione della cappella dell’Annunciata nel palazzo del Quirinale, compiuta, fra gli altri, con Francesco Albani, Antonio Carracci e Giovanni Lanfranco. Altra committenza Borghese in quel volger di anni è la cappella Paolina in Santa Maria Maggiore, il cui limitato intervento dell’artista si colloca tra il 1610 e il 1612. Direttamente per il cardinale Scipione realizza l’affresco dell’Aurora nel Casino al Quirinale – oggi Palazzo Pallavicini Rospigliosi – terminato nel 1614.

Da questa data l’artista lascia Roma e torna a Bologna, città in cui aveva già eseguito due dipinti epocali quali La Strage degli innocenti, (1610, oggi Pinacoteca Nazionale, Bologna) e il Sansone vittorioso. Nel secondo decennio del secolo realizza nella città emiliana, altre fondamentali pitture che diventano prototipo per numerose opere seicentesche come la pala detta Pietà dei Mendicanti nella chiesa di Santa Maria della Pietà, commissionata dal Senato bolognese, la Crocifissione, oggi alla Pinacoteca Nazionale, e l’Assunzione della Vergine di Genova, e nel 1615 la Gloria di San Domenico nell’omonima chiesa, iniziata nel 1613 e interrotta a causa dei frequenti viaggi a Roma.

I lavori in corso necessitarono da subito della collaborazione di colleghi, assistenti e giovani praticanti: Malvasia arriva a parlare di duecento allievi, anche se il numero conferma soltanto la grande fama e il riconoscimento raggiunti. Dopo brevi soggiorni a Mantova e a Napoli, è di nuovo a Roma nel 1625 dove realizza la meravigliosa pala della Trinità per la Chiesa dei Pellegrini e riceve numerose commissioni fra cui si ricordano gli affreschi mai realizzati delle Storie di Attila a San Pietro, commissionate dal cardinale Barberini, nipote del nuovo pontefice; il Ritratto del cardinale Bernardino Spada conservato nell’omonima Galleria romana, dono del pittore all’amico cardinale e legato pontificio a Bologna e l’iconico San Michele arcangelo che uccide il demonio su seta, per il cardinale Antonio Barberini, fratello di papa Urbano VIII, considerato un esempio di bellezza ideale per la chiesa dell’ordine a Roma. Muore “colto da febbri” nel 1642, a 67 anni ed è sepolto nella cappella del Rosario della basilica di San Domenico a Bologna.

Guido Reni a Roma

Francesca Cappelletti – Guido Reni a Roma.

Un quadro singolare e le ragioni della mostra

Settimo, saper ritrovare una cosa grande, come una facciata, un’anticaglia, o paese vi- cino, o lontano; il che si fa in due maniere, una senza diligenza di far cose minute, ma con botte e in confuso, come macchie, però con buon artificio di pittura fondata, o con franchezza esprimendo ogni cosa; nel qual modo si vedono i paesi di Tiziano, di Raffaele, dei Caracci, di Guido, ed altri simili. L’altro modo è di far paesi con maggior diligenza, osservando una minuzia di qualsivoglia cosa come hanno dipinto il Civetta, Brugolo, Brillo, ed altri, per lo più fiamminghi, pazienti in far le cose dal naturale con molta distinzione. […]

Duodecimo modo, è il più perfetto di tutti; perché è più difficile, l’unire il modo de- cimo con l’undecimo già detto, cioè dipingere di maniera, e con l’esempio avanti del naturale, che così dipinsero gli eccellenti pittori della prima classe, noti al mondo, ed a tempi nostri il Caravaggio i Carracci, Guido Reni ed altri, tra i quali taluno ha premuto più nel naturale che nella maniera, taluno più nella maniera che nel naturale, senza però discostarsi dall’uno, né dall’altro modo di dipingere, premendo nel buon disegno, e vero colorito, e con dare i lumi propri e veri.

Vincenzo Giustiniani, Discorso sopra la pittura

 

«Che virtù infusa? Con incessante studio, e con ostinata fatica si acquistano questi doni, non si trovano già a sorte, né si ereditano dormendo […] Ho studiato più che quanto altri mai s’abbia fatto, negandosi sino alla stanchezza il notturno e necessario riposo».

Carlo Cesare Malvasia così fa parlare Guido Reni di sé stesso, come fosse il primo a essere irritato dai commenti sulla perfezione della sua pittura, sulla meravigliosa mancanza di ogni evidente fatica nei suoi dipinti. Questo, come i celebri passi del Discorso sopra la pittura di Vincenzo Giustiniani, che hanno guidato la prima idea di questa mostra, sono testi preziosi che ci obbligano a riflettere sul percorso di Guido Reni a Roma e ad aggiungere qualche tassello alla sua attività nella città del papa, cercando di individuare le modalità e gli oggetti romani di questo studio continuo.

Considerarlo “divino”, aggettivo che insegue il suo nome fin da molto presto, spinge a mantenere una certa distanza da questo pittore, che invece un’osservazione attenta delle sue opere e particolarmente di quelle prodotte nel periodo tra il 1601 e il 1614, in gran parte trascorso a Roma, non ci consente più.

Grazie agli studi degli ultimi anni e in particolare grazie alla monumentale pubblicazione dell’edizione critica della biografia di Reni scritta da Carlo Cesare Malvasia, da poco uscita, tradotta in inglese con perizia e annotata con straordinaria cura e profondità, è giunto il momento di avvicinarci a questo pittore, di mettere ancora più in luce la sua grande capacità di sperimentare, di ricostruirne le relazioni e di verificarne il reale impatto sul suo tempo.

Un elemento ancora più concreto e recente che ci obbliga poi a riconsiderare il soggiorno romano dell’artista è la ricomparsa della Danza campestre. Il dipinto, una singolare scena di ballo tra contadini e signori ambientata in una radura sotto le montagne, in cui l’orizzonte si apre in una spettacolare fusione di blu e di azzurri, dal 2020 fa parte delle raccolte della Galleria Borghese e il suo fortunato recupero è il motivo scatenante di questa mostra.

Guido Reni a Roma

Il paesaggio apparteneva alla collezione di Scipione Borghese e, come viene raccontato in vari punti di questo catalogo, è davvero una novità nel percorso del pittore, subito accompagnata dalla riscoperta di un altro dipinto di paesaggio “puro”, ma con motivi all’antica: il Paesaggio con scherzi di amorini proveniente dalla collezione Farnese.

Questi dipinti ci mettono di fronte a un aspetto dell’attività di Guido poco nota e sorprendente, ma che trova certamente motivi e conferme se inseriamo il pittore nel contesto romano, da dove spesso la sua considerazione di divino e di perfetto aveva contribuito a estrapolarlo. La produzione di paesaggi, intesi non solo come scorci naturali di sfondo alle storie, era totalmente ignota al catalogo dell’artista fino a pochi anni fa.

Questo elemento sembrava distinguerlo ulteriormente dall’attività dei suoi conterranei a Roma, non solo il grande Annibale, ma Domenichino, Albani e poi i collaboratori del Carracci che più tendevano a specializzarsi in questo genere: Pietro Paolo Bonzi e Giovan Battista Viola.

Ma Guido arriva a Roma, e abita, con Francesco Albani che, dal 1605 in poi, è il prosecutore delle lunette con le Storie della Vergine in ampi paesaggi, commissionate ad Annibale da un grande fautore dei “paesi”, Pietro Aldobrandini, per il quale Guido esegue il suo capolavoro degli anni romani, la Crocifissione di san Pietro.

Anche Odoardo Farnese va considerato fra i promotori di questo nuovo genere, come già da tempo sottolineato da Clare Robertson, che vede nei due cardinali, legati dalla loro parentela di inizio secolo e da una continua rivalità, i personaggi decisivi per le occasioni date alla pittura di paesaggio e ai suoi autori di conquistare spazi, autonomia, declinazioni diverse6. Guido, inoltre, è a contatto, fin dal suo primo cantiere romano, con Paul Bril, il fiammingo che trascorre a Roma più di quarant’anni e che all’alba del 1600 viene incaricato dal cardinal Sfondrati di eseguire gli Eremiti nel paesaggio nella cappella del Bagno in Santa Cecilia in Trastevere.

Nessuno di loro, né Annibale, né Bril, ma neanche Guido, sfugge all’acuta definizione del dipingere paesaggi, in diverse maniere, fornita da Vincenzo Giustiniani.

Per sottolineare la pratica della pittura di paesaggio a Roma nel primo decennio, nella mostra compaiono alcune delle necessarie premesse emiliane, più o meno distanti nel tempo ma fondamentali, da Niccolò dell’Abate al carraccesco Festa campestre di Marsiglia, alcuni quadri di Paul Bril della Galleria Borghese, e due dei sei paesaggi con storie mitologiche di Carlo Saraceni, eseguiti tra il 1606 e il 1608 e già parte della collezione Farnese, dove, nei camerini del palazzo romano, si accampavano paesi di mani diverse e, in seguito, l’insieme straordinario degli Eremiti di Lanfranco.

Di tutte queste tendenze e variazioni nel dipingere i paesi cerchiamo dunque di dare conto nella seconda parte della mostra, quella decisamente incentrata sulla Danza campestre: nella sala di Lanfranco, all’ingresso della Pinacoteca, i prestiti generosi e le eccezionali raccolte della Galleria Borghese consentono percorsi e divagazioni intorno al nostro ultimo acquisto.

Il visitatore può ricostruire la linea carraccesca del paesaggio fino a quando Giovan Francesco Grimaldi provvederà ancora a interpretare, in senso equilibrato e naturalistico, gli esempi che Annibale aveva lasciato nel primo decennio del secolo; può osservare da vicino i dipinti di Paul Bril in anni vicini agli affreschi di Santa Cecilia e capire quanto il fiammingo rappresentasse, con la sua bottega, uno dei nodi del trasferimento culturale tra il paesaggio universale del Nord, una sorta di catalogo del mondo naturale, e i paesi «a botte e in confuso» della tradizione italiana, sempre secondo la definizione di Vincenzo Giustiniani.

Curiosità, emulazione e rivalità avevano fatto sì che nella bottega del Cavalier d’Arpino lo stesso Giuseppe e suo fratello Bernardino Cesari si fossero adoperati nelle profondità trasparenti e azzurrine mutuate dai quadri di Bril e dei suoi conterranei e così lo spettatore è invitato a cercare, nello spazio della cappella al pianterreno e in giro per le sale, i paesaggi con le figure piccole dei due fratelli.

Non farà troppa strada per incontrare le più tarde e letterarie sperimentazioni dei pittori bolognesi: i quattro tondi di Francesco Albani, paesaggi eseguiti per Scipione Borghese e abitati da Venere, Diana e i loro aiutanti, cupidi e ninfe, restano sulla parete della sala del Lanfranco; dalla Pinacoteca di Bologna arriva un paesaggio maturo di Domenichino, il Paesaggio con Silvia e satiro, testimonianza di un interesse che continua nei decenni successivi a quei primi intensi momenti del secolo in cui la sperimentazione sui paesi piccoli era cominciata.

Pochi passi ancora verso la sala XIX e il visitatore si troverà di fronte al capolavoro di Domenichino, Diana e le ninfe, in cui le proporzioni non sono più quelle del quadro di paesaggio a cui ci siamo abituati, ma dove il sentimento della natura e del rapporto delle figure con questa è trasformato dalla complessità del soggetto e dalla gara che si instaura con le grandi tele tizianesche dei Baccanali, che appartenevano allo stesso committente del quadro di Domenichino, Pietro Aldobrandini.

Ma le opere della Galleria Borghese non serviranno solo a contestualizzare questa prima, grande stagione della pittura di paesaggio a Roma e a comprendere meglio il ruolo di Guido in questo contesto, che certo, almeno nella Danza campestre, mostra un’attitudine a costellare di dettagli ed episodi le sponde del corso d’acqua e le profondità del secondo piano che lo collocano non lontano dalla pittura fiamminga italianizzata di Bril; l’ambientazione nelle sale del museo ci spingerà a riflettere sulla grandezza, sulle fatiche e forse sulla solitudine di Guido Reni.

Le grandi pale religiose, tutte insieme nel grande salone d’ingresso, riportano la nostra attenzione sulla capacità, da parte dell’artista, di confrontarsi con la tipologia della pala d’altare, che, in particolare a Bologna negli anni di Ludovico Carracci e delle riflessioni sull’arte sacra di Gabriele Paleotti era al centro di un rinnovato interesse.

Chiaro, comunicativo, in grado di toccare gli animi attraverso la solennità e la potenza delle sue figure, perfette invece che accattivanti, Guido aveva trovato la sua strada nel dipingere in grandi dimensioni (il contrario, nell’evidenza e nel lessico, del «dipingere in piccolo» dei quadri di paesaggio) negli anni precedenti all’arrivo a Roma, ai quali appartiene, per esempio, la pala di Pieve di Cento del 1599-1600.

La sua presa di posizione in un certo senso già romana, nella preferenza per Raffaello invece che per i veneti, notata da Malvasia e in questo catalogo acutamente analizzata da Daniele Benati, il suo non perfetto allineamento con la pittura sentimentale di Ludovico, la seppur temporanea rottura dell’amicizia con Francesco Albani lasciano intravedere un carattere indipendente, un’indole da osservatore attento e non remissivo. In grado di fare le sue scelte, a Bologna come nei primi anni romani, ce lo restituiscono le opere di Santa Cecilia a Trastevere, di Osimo, di Albenga e soprattutto la Crocifissione di san Pietro per la chiesa romana di San Paolo alle Tre Fontane.

Guido Reni a Roma

Queste grandi pale per altari importanti, a Roma e fuori Roma, parlano anche del rapporto di Guido con i suoi committenti: Paolo Emilio Sfondrati, Antonio Maria Gallo, Ottavio Costa e il più volte citato Pietro Aldobrandini. Sono esposte, in occasione della mostra nella Galleria, il casino di Porta Pinciana fatto costruire da Scipione Borghese, uno dei suoi estimatori, colui che, insieme allo zio pontefice, darà a Guido le sue grandi opportunità, dal 1605, o forse 1606, dopo la partenza da Roma di Caravaggio, per poco meno di un decennio.

Dall’inizio del pontificato fino al 1614 non mancheranno divergenze e allontanamenti, ma soprattutto grandi commissioni, in luoghi rappresentativi delle funzioni, pubbliche e pri- vate, della famiglia Borghese. Scipione non disdegnava le pale d’altare negli spazi della dimora, tanto da acquistare la Madonna dei Palafrenieri di Caravaggio per la sua collezione e come lui ragionavano altri grandi collezionisti della sua epoca, da Vincenzo Gonzaga a Vincenzo Giustiniani, che addirittura commissionava dipinti dalle proporzioni delle pale d’altare per la sua raccolta. Questa consapevolezza ci conforta nel riunire opere così imponenti, e le loro “storie” – i martirii, le assunzioni – in uno spazio profano.

Nelle stanze accanto al grande salone le proporzioni sono ristabilite e quello che è appena suggerito all’ingresso della mostra diventa puntuale: alla base della pittura romana di Guido, qui illustrata straordinariamente dalla Strage degli innocenti e da Paolo rimprovera Pietro penitente – e di quella che si spinge un poco più in là negli anni, forse, come Lot e le figlie e Atalanta e Ippomene – c’è l’attrazione, ricambiata, per il mestiere degli scultori. Non si tratta solo delle citazioni dall’antico e dell’ispirazione che Gian Lorenzo Bernini trasse dal volto già di marmo di una delle madri della Strage,10 ma della loro posizione nello spazio, della concretezza dei gesti tridimensionali, delle espressioni dei volti che, magistralmente, fissano per sempre quella specifica emozione ma prendono le distanze dalla storia.

Se a Roma (e oggi alla Galleria Borghese) non si poteva certo sfuggire all’antico, non si poteva, e non si può, sfuggire a Caravaggio. Il nodo dei rapporti tra i due grandi affiora nei saggi del catalogo e non posso che rimandare alla loro lettura: ma nelle sale del museo questa relazione va in scena continuamente e ogni volta ci forza a riconsiderare che cosa entrambi trassero da Roma, dall’antico e da quel concetto ancora così complesso e sfuggente di «naturale»; e ci fa capire perché ogni volta possiamo tornare a leggere le parole di Vincenzo Giustiniani riempiendo quella sintesi di nuove osservazioni e significati.

Francesca Cappelletti

Biografia

Francesca Cappelletti è direttrice della Galleria Borghese dal novembre 2020. Ha studiato a Roma, Università La Sapienza (1983-1987); a Londra, Warburg Institute (1989-1990), dove è stata in seguito Frances Yates fellow (1995) e a Parigi, Collège de France (1990-1991) e ha poi insegnato Storia dell’Arte Moderna e Storia dell’Arte dei Paesi Europei nelle università italiane, in ultimo come professore ordinario all’Università di Ferrara.

L’argomento principale dei suoi studi è il collezionismo italiano dal Rinascimento all’Ottocento. Ha pubblicato un volume sulla collezione Mattei (in coll. con L. Testa, 1994) e vari articoli sulle vicende della sua dispersione, che hanno contribuito al ritrovamento del dipinto di Caravaggio. La cattura di Cristo, attualmente alla National Gallery di Dublino. Ha ricostruito l’assetto della Galleria Doria Pamphilj di Roma, con ricerche d’archivio poi utilizzate per il riallestimento della raccolta nel 1996.

Da queste ricerche è nato l’interesse per Caravaggio, i pittori stranieri in Italia e la pittura di paesaggio nel Seicento, principali argomenti delle sue pubblicazioni. Dal 2007 è stata direttrice scientifica della Fondazione Ermitage Italia, che ha promosso la pubblicazione di una collana sulle opere di arte italiana conservate nel museo russo.

Dal 2009 ha collaborato con il Getty Research Institute di Los Angeles a due progetti sulla storia del collezionismo italiano, uno concluso nel 2014 con la pubblicazione del volume Display of art in Roman Baroque Palaces, a cura di Gail Feigenbaum, l’altro con la pubblicazione digitale Pietro Mellini’s Inventory in verses. Ha partecipato all’organizzazione e ai cataloghi di mostre in Italia e all’estero; per esempio, Nature et Idéal. Le paysage à Rome 1600-1650, Parigi, Grand Palais – Madrid, Prado, 2011; I Bassifondi del Barocco, Roma-Villa Medici e Parigi, Petit Palais, 2014-2015. Ha organizzato panels internazionali sulla decorazione dei palazzi barocchi nei convegni annuali RSA (Renaissance Society of America) 2014, 2015, 2016 e 2017.

Nel 2015 ha partecipato alla commissione istituita dal Presidente della Repubblica Italiana per l’apertura al pubblico del palazzo del Quirinale, varata il 23 giugno 2015. Dal settembre 2012 ha fatto parte del Consiglio Superiore dei Beni Culturali del MIC, di cui è diventata Vicepresidente nel 2014 e fino al 2018; dal 2015 al 2020 è stata componente del Comitato Scientifico della Galleria Borghese, delle Gallerie Estensi, e, dal 2019, del MEIS.

Guido Reni a Roma

GUIDO RENI A ROMA – IL SACRO E LA NATURA
a cura di Francesca Cappelletti

Nel 2020 la Danza campestre di Guido Reni è stata riacquisita alle collezioni della Galleria Borghese dopo una dispersione durata secoli. Attorno a questo importante rientro ruota l’esposizione di oltre trenta dipinti, per gran parte dell’artista bolognese ma anche dei maestri, colleghi, sodali, amici che con lui condivisero gli anni giovanili e cruciali del primo soggiorno romano: Annibale Carracci, Domenichino, Francesco Albani, Paul Bril.

Sono anni, tra il 1601e il 1614, nei quali egli pratica la pittura di paesaggio – finora poco riconosciuta al suo catalogo e che qui manifesta esiti sorprendenti – insieme allo studio appassionato dell’antico e del Rinascimento, alla conoscenza profonda e stupefacente dei quadri di Caravaggio, alla costruzione di relazioni durature con i grandi committenti del suo tempo, Pietro Aldobrandini, Paolo Emilio Sfondrato, Scipione Borghese.

Nella Loggia del Lanfranco, al piano Pinacoteca della Galleria, prendono posto i dipinti che ci parlano del Guido paesaggista, della sua Danza innanzi tutto – singolare scena di ballo tra contadini e signori ambientata in una radura sotto le montagne – in relazione a esemplari di contesto che offrono l’opportunità di valutare la sua esperienza del soggetto campestre nel quadro della prima grande stagione della pittura di paesaggio a Roma.

Guido è però figura magnificamente aperta agli enormi stimoli che, negli stessi anni, la città offriva e imponeva. È dunque indispensabile richiamare, tanto più in un museo a forte vocazione statuaria, la sua attrazione per la scultura antica, che oltre a esprimersi in citazioni puntuali si concretizza anche come posizione forte nello spazio, consistenza gestuale, espressività dei volti, nella Strage degli innocenti, in Paolo rimprovera Pietro penitente, o in Atalanta e Ippomene al piano sculture del museo. Sullo stesso piano, nel Salone d’ingresso, prende posto infine la sua declinazione della pala d’altare, tipologia pittorica sacra che in quel periodo riscuote un rinnovato interesse e che trova una sistemazione compositiva nella solennità, nella dimensione imponente.

A questa novità Guido risponde con figure gigantesche e potenti, impegnate in martirii e assunzioni e capaci di toccare gli animi, apparentemente anomale in uno spazio a tal punto profano e invece accolte, nel loro essere così chiare e comunicative, dalla natura versatile del luogo per come Scipione lo concepì, spazio privato per desideri grandiosi.

Aperto al pubblico – Dal 1° marzo al 22 maggio 2022

GALLERIA BORGHESE

Piazzale Scipione Borghese, 5 – 00197 Roma

galleriaborghese.it

 

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